Blog Religioso

Questo blog è rivolto a tutti quelli che hanno fame e sete di Dio



sabato 2 luglio 2016

Ecumenismo

Se per ecumenismo si intende lo sforzo di ricostruire l'unità visibile della Chiesa, tutta la storia della Chiesa Ortodossa appare ecumenica. La restaurazione dell'unità visibile della Chiesa non è un problema di centralizzazione ecclesiastica né di uniformità confessionale, bensì di comune fede. Una delle prime iniziative ecumeniche del nostro secolo appartiene al Patriarcato di Costantinopoli (1920) .

Fin dal 1925 le Chiese Ortodosse partecipano con i loro rappresentanti alle assemblee ecumeniche ed insieme ai Protestanti costituiscono il Consiglio Ecumenico delle Chiese.
Una tappa molto importante del percorso di avvicinamento si è verificato nel 1964 con l'abbraccio, a Gerusalemme, tra papa Paolo VI (Eugenio Montini) che credeva fermamente alla necessità di realizzare l’ecumenismo prima di tutto in campo ecclesiale, e il patriarca di Costantinopoli Atenagora.

Si accorse che anche in quale fratello cristiano, ma separato, c’era il vivo desiderio di superamento delle motivazioni che avevano portato alla divisione tra fratelli, e poté compiere uno dei più significativi gesti e di ecumenismo, abbracciandosi con quel fratello che aveva alcune convinzioni diverse dalle sue, e badando unicamente all’amore fraterno.

Papa Giovanni Paolo II, intenzionato come il suo predecessore allo sviluppo dei gesti di amore fraterno, ha esteso il cammino degli incontri ecumenici anche ai fratelli di religioni diverse da quella cristiana, (papa Giovanni XXIII aveva creato i primi germi quando accolse fraternamente il genero di Kruscev).

Dobbiamo augurarci tutti che il fenomeno si estenda dal campo ecclesiale a quello umano fra tutti i popoli, prescindendo dalle motivazioni di conflittualità e ponendo in primo posto il rispetto per la persona umana.

L' Ortodossia è presente nei dialoghi ecumenici con quasi tutte le famiglie confessionali; con la Chiesa Cattolica i rapporti sono ripresi il 5 gennaio 1965, quando a Gerusalemme il Papa Paolo VI ed il Patriarca Atenagora I diedero inizio al cosiddetto Dialogo della carità.

Interessante ricordare i documenti: "Orientalium Ecclesiarum" - Concilio Vaticano II - DECRETO sulle Chiese Cattoliche Orientali e "La luce dell'Oriente" - Appello all'unità con le Chiese orientali nel centenario della Orientalium dignitas di papa Leone XIII, Lettera apostolica di Giovanni Paolo II - 1995

Il vero progresso del Cristianesimo orientale non dipende dalla soppressione di diverse tradizioni religiose a vantaggio di altre, ma dalla volontà dei membri della Chiesa di intraprendere una feconda collaborazione e di sostenere un dialogo basato sulla cordialità e sulla comprensione.


mercoledì 25 maggio 2016

SANTISSIMA TRINITA'

La solennità della Santissima Trinità ricorre ogni anno la domenica dopo Pentecoste, quindi come festa del Signore. Si colloca pertanto come riflessione su tutto il mistero che negli altri tempi è celebrato nei suoi diversi momenti e aspetti. Fu introdotta soltanto nel 1334 da papa Giovanni XXII, mentre l'antica liturgia romana non la conosceva.
Propone uno sguardo riconoscente al compimento del mistero della salvezza realizzato dal Padre, per mezzo del Figlio, nello Spirito Santo. La messa inizia con l'esaltazione del Dio Trinità "perché grande è il suo amore per noi".

Un Mistero non contro la ragione

Il mistero della Santissima Trinità è un mistero e come tale non può essere compreso. Ma non per questo è qualcosa d’irragionevole. Nella dottrina cattolica ciò che è mistero è sì indimostrabile con la ragione, ma non è irrazionale, cioè non è in contraddizione con la ragione.
La ragione conduce all’unicità di Dio: Dio è assoluto e logicamente non possono esistere più assoluti. Ebbene, la ragionevolezza del mistero della Trinità sta nel fatto che esso non afferma l’esistenza di tre dei, bensì di un solo Dio che però è in tre Persone uguali e distinte. Nel Credo si afferma: «Credo in un solo Dio in tre Persone uguali e distinte, Padre, Figlio e Spirito Santo».  Quale è il Padre, tale è il Figlio e tale è lo Spirito Santo. Increato è il Padre, increato è il Figlio, increato è lo Spirito Santo. Onnipotente è il Padre, onnipotente è il Figlio, onnipotente è lo Spirito Santo. Tuttavia non vi sono tre increati, tre assoluti, tre onnipotenti, ma un increato, un assoluto e un onnipotente. Dio e Signore è il Padre, Dio e Signore è il Figlio, Dio e Signore è lo Spirito Santo; tuttavia non vi sono tre dei e signori, ma un solo Dio, un solo Signore (Simbolo atanasiano).

Una possibile analogia

Per capire qualcosa della Trinità, ma senza la possibilità di esaurirne il mistero, si può utilizzare questa analogia. La Sacra Scrittura dice che quando Dio creò l’uomo, lo creò a sua “immagine” (Genesi 1,27). Dunque, nell’uomo si trova una lontana ma comunque presente immagine della Santissima Trinità.
L’uomo possiede la mente e la mente genera il pensiero. Il pensiero, contemplato dalla mente, è amato, e così dal pensiero e dalla mente procede l’amore. Ora mente, pensiero, amore, sono tre cose ben distinte fra loro, ma assolutamente inseparabili l’una dall’altra, tanto che si può dire che siano nell’uomo una cosa sola.
Nella Trinità il Padre è mente, che da tutta l’eternità genera il suo Pensiero perfettissimo (il Logos). Il Pensiero, generato eternamente dal Padre, sussiste, come persona distinta, ed è lo Spirito Santo.
Ma come la mente, il pensiero e l’amore sono nell’uomo tre cose distinte, ma assolutamente inseparabili, così il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, sebbene sussistano come persone distinte, sono però un Dio solo.

Un grande insegnamento sull’amore vero

Fin qui cose che solitamente si conoscono. Invece ciò di cui solitamente non si parla è il fatto che il mistero della Trinità esprime chiaramente quanto l’amore debba essere giudicato dalla verità. Vediamo in che senso.
Come abbiamo già avuto modo di dire, la Trinità è costituita dal Padre, dal Figlio e dallo Spirito Santo. Non si dice: dallo Spirito Santo, dal Figlio e dal Padre o dal Figlio, dal Padre e dallo Spirito Santo, ma: dal Padre, dal Figlio e dallo Spirito Santo. Il tutto in una successione logica ma non cronologica. Ciò vuol dire che senza il Figlio non ci sarebbe lo Spirito Santo e senza il Padre non ci sarebbe il Figlio. Ma – e anche questo lo abbiamo detto – non è che il Padre abbia creato il Figlio e il Figlio abbia creato lo Spirito Santo. Perché, se così fosse, il Figlio e lo Spirito Santo sarebbero delle creature e ciò non è.
Dunque una successione logica ma non nel tempo (cronologica). Il Cristianesimo ortodosso (quello dei Russi, dei Serbi, dei Greci, per intenderci) è lontano dal Cattolicesimo non solo perché non riconosce il Primato del Vescovo di Roma (il Papa), ma anche perché, a proposito della Trinità, non riconosce la dottrina cosiddetta del Filioque, cioè che lo Spirito Santo procede dal Padre e dal Figlio. Lo Spirito Santo – secondo gli ortodossi – procederebbe solo dal Padre.
Questione di lana caprina, direbbe qualcuno. Inutili pignolerie, direbbero altri. E invece no, la questione è importante, per non dire importantissima.
Didatticamente si attribuisce al Padre l’azione della creazione, al Figlio quella della redenzione, allo Spirito Santo quella della santificazione. Questo non vuol dire che nel momento della creazione il Padre agiva e il Figlio e lo Spirito Santo non partecipavano, oppure nella redenzione il Figlio agiva e il Padre e lo Spirito Santo erano assenti... Nella creazione ha agito tanto il Padre, quanto il Figlio, quanto lo Spirito Santo e così nella redenzione... ma metodologicamente si dice così: il Padre crea, il Figlio redime, lo Spirito Santo santifica.
Il Figlio è chiamato anche Verbo (Parola) per indicare il fatto che è il Dio che si manifesta, che si comunica. Il Figlio è anche il Logos, la Verità, mentre lo Spirito Santo è l’Amore. Ed ecco il punto nodale. Già in Dio è pienamente rispettata la processione logica verità-amore. L’amore deve essere sempre giudicato dalla verità, altrimenti può diventare anche la cosa più terribile.
Facciamo un esempio. Un padre di figli lascia la famiglia perché “s’innamora” di un’altra donna: fa bene? Oggi molti risponderebbero di sì e direbbero: se lo ha fatto per amore... Due uomini o due donne s’innamorano e decidono di vivere insieme: fanno bene? Se lo fanno per amore… Ma questo è il punto. L’amore se non è giudicato dalla verità diventa il contrario di sé. Facciamo un altro esempio. Perché Hitler e i suoi decisero di perseguitare gli Ebrei? La risposta può sembrare paradossale ma non lo è: per troppo “amore” nei confronti della razza ariana. Perché Stalin decise di sterminare milioni e milioni di piccoli proprietari? Per troppo “amore” nei confronti dello Stato socialista. Perché Robespierre decise di tagliare teste su teste? Per troppo “amore” nei confronti della Rivoluzione che sentiva minacciata.  Ecco cos’è l’amore sganciato dalla verità. E, se si riflette bene, questo è uno degli errori più tipici dei nostri tempi. C’è chi si lamenta che oggi c’è poco amore. Verrebbe da dire: no, non è così, oggi ciò che manca non è l’amore, ma la consapevolezza della Verità, che è un’altra cosa! Oggi ciò che manca è la convinzione che l’amore – perché sia vero – deve essere giudicato dalla verità.
Bisognerebbe ritornare a meditare sulla natura di Dio per capire come già nella Sua intima natura è presente questa verità, e cioè che l’amore è vero se è conforme al Vero. Solo così si potrà anche capire perché mai la Chiesa Cattolica ha tenuto fermo sul punto del Filioque.

Si afferma, con facilità, che tutti i popoli - anche i non cristiani - sanno che Dio esiste e che anche i 'pagani' credono in Dio. Questa verità condivisa – pur con alcune differenze, riserve e la necessità di purificare immagini e rapporti - è la base che rende possibile il dialogo fra le religioni, e in particolare il dialogo fra i cristiani e i seguaci di altre religioni. Sulla base di un Dio unico comune a tutti, è possibile tessere un'intesa fra i popoli in vista di azioni concertate a favore della pace, in difesa di diritti umani, per la realizzazione di progetti di sviluppo e crescita umana e sociale. Su questo fronte abbiamo visto gesti coraggiosi e positivi di intesa e collaborazione, promossi anche da grandi Papi, come Giovanni XXIII, Paolo VI, Giovanni Paolo II; ma sempre nella chiara consapevolezza che tutto questo è soltanto una parte dell'azione evangelizzatrice della Chiesa nel mondo.

Per un cattolico l'orizzonte di relazioni fondate sull'esistenza di un Dio unico non è sufficiente, e tanto meno lo è per un missionario cosciente della straordinaria rivelazione ricevuta per mezzo di Gesù Cristo, rivelazione che abbraccia tutto il mistero di Dio, nella sua unità e trinità. Il Vangelo che il missionario porta al mondo, oltre a rafforzare e perfezionare la comprensione del monoteismo, apre all'immenso, sorprendente mistero del Dio-comunione di Persone. La parola 'mistero' è da intendersi più per ciò che rivela che per quello che nasconde. In questa materia è meglio lasciare la parola ai mistici. Per S. Giovanni della Croce "c'è ancora molto da approfondire in Cristo. Questi infatti è come una miniera ricca di immense vene di tesori, dei quali, per quanto si vada a fondo, non si trova la fine; anzi in ciascuna cavità si scoprono nuovi filoni di ricchezze". Rivolgendosi alla Trinità, S. Caterina da Siena esclama: "Tu, Trinità eterna, sei come un mare profondo, in cui più cerco e più trovo, e quanto più trovo, più cresce la sete di cercarti. Tu sei insaziabile; e l'anima, saziandosi nel tuo abisso, non si sazia, perché permane nella fame di te, sempre più te brama, o Trinità eterna".

La rivelazione cristiana del Dio trino offre parametri nuovi sul mistero di Dio. Sia in se stesso, sia nei suoi rapporti con l'uomo e il creato, come pure per le relazioni fra le persone umane. Un anonimo ha trasmesso il seguente dialogo, scarno ma essenziale, tra un musulmano e un cristiano.
- Diceva un musulmano: "Dio, per noi, è uno; come potrebbe avere un figlio?"
- Rispose un cristiano: "Dio, per noi, è amore; come potrebbe essere solo?"
Si tratta di una forma stilizzata di 'dialogo interreligioso', che manifesta una verità fondamentale del Dio cristiano, capace di arricchire anche il monoteismo ebraico, musulmano e delle altre religioni. Infatti, il Dio rivelato da Gesù (Vangelo) è soprattutto Dio-amore (cf. Gv 3,16; 1Gv 4,8). È un Dio unico, in una piena comunione di Persone. Egli si rivela a noi soprattutto come un "Dio misericordioso e pietoso" (I lettura); "Dio ricco di misericordia" (Ef 2,4).

È questo il vero volto di Dio che tutti i popoli hanno il diritto e il bisogno di conoscere * dai missionari della Chiesa. Per questo, afferma il Concilio, "la Chiesa pellegrinante è missionaria per sua natura, in quanto essa trae origine dalla missione del Figlio e dalla missione dello Spirito Santo, secondo il progetto di Dio Padre" (Ad Gentes 2). Nei primi numeri dello stesso Decreto il Concilio spiega l'origine e il fondamento trinitario della missione universale della Chiesa, offrendo, tra l'altro, una delle più alte sintesi teologiche di tutto il Concilio.



mercoledì 11 maggio 2016

Ascensione


L’Ascensione di Gesù al Cielo, è la grandiosa conclusione della permanenza visibile di Dio fra gli uomini, preludio della Pentecoste, inizia la storia della Chiesa e apre la diffusione del cristianesimo nel mondo.

Senso biblico del termine ‘Ascensione’

Secondo una concezione spontanea e universale, riconosciuta dalla Bibbia, Dio abita in un luogo superiore e l’uomo per incontrarlo deve elevarsi, salire.
L’idea dell’avvicinamento con Dio, è data spontaneamente dal monte e nell’Esodo (19,3), a Mosè viene trasmessa la proibizione di salire verso il Sinai, che sottintendeva soprattutto quest’avvicinamento al Signore; “Delimita il monte tutt’intorno e dì al popolo; non salite sul monte e non toccate le falde. Chiunque toccherà le falde sarà messo a morte”.
Il comando di Iavhè non si riferisce tanto ad una salita locale, ma ad un avvicinamento spirituale; bisogna prima purificarsi e raccogliersi per poter udire la sua voce. Non solo Dio abita in alto, ma ha scelto i luoghi elevati per stabilirvi la sua dimora; anche per andare ai suoi santuari bisogna ‘salire’.
Così lungo tutta la Bibbia, i riferimenti al ‘salire’ sono tanti e continui e quando Gerusalemme prende il posto degli antici santuari, le folle dei pellegrini ‘salgono’ festose il monte santo; “Ascendere” a Gerusalemme, significava andare a Iavhè, e il termine, obbligato dalla reale posizione geografica, veniva usato sia dalla simbologia popolare per chi entrava nella terra promessa, come per chi ‘saliva’ nella città santa.
Nel Nuovo Testamento, lo stesso Gesù ‘sale’ a Gerusalemme con i genitori, quando si incontra con i dottori nel Tempio e ancora ‘sale’ alla città santa, quale preludio all’”elevazione” sulla croce e alla gloriosa Ascensione.

I testi che segnalano l’Ascensione



I Libri del Nuovo Testamento contengono sporadici accenni al mistero dell’Ascensione; i Vangeli di Matteo e di Giovanni non ne parlano e ambedue terminano con il racconto di apparizioni posteriori alla Resurrezione.
Marco finisce dicendo: “Gesù… fu assunto in cielo e si assise alla destra di Dio” (XVI, 10); ne parla invece Luca: “Poi li condusse fin verso Betania, e alzate le mani, li benedisse. E avvenne che nel benedirli si staccò da loro e fu portato verso il cielo” (XXIV, 50-51).
Ancora Luca negli Atti degli Apostoli, attribuitigli come autore sin dai primi tempi, al capitolo iniziale (1, 11), colloca l’Ascensione sul Monte degli Ulivi, al 40° giorno dopo la Pasqua e aggiunge: “Detto questo, fu elevato in alto sotto i loro occhi e una nube lo sottrasse al loro sguardo. E poiché essi stavano fissando il cielo mentre egli se ne andava, ecco due uomini in bianche vesti si presentarono a loro e dissero: Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo? Questo Gesù, che è stato tra di voi assunto fino al cielo, tornerà un giorno allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo”.
Gli altri autori accennano solo saltuariamente al fatto o lo presuppongono, lo stesso s. Paolo pur conoscendo il rapporto tra la Risurrezione e la glorificazione, non si pone il problema del come Gesù sia entrato nel mondo celeste e si sia trasfigurato; infatti nelle varie lettere egli non menziona il passaggio dalla fase terrestre a quella celeste.
Ma essi ribadiscono l’intronizzazione di Cristo alla destra del Padre, dove rimarrà fino alla fine dei secoli, ammantato di potenza e di gloria; “Se dunque siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, dove Cristo sta assiso alla destra di Dio; pensate alle cose di lassù, non a quelle della terra; siete morti infatti, e la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio!” (Colossesi, 3, 1-3).

I dati storici dell’Ascensione



Luca, il terzo evangelista, negli “Atti degli Apostoli” specifica che Gesù dopo la sua passione, si mostrò agli undici apostoli rimasti, con molte prove, apparendo loro per quaranta giorni e parlando del Regno di Dio; bisogna dire che il numero di ‘quaranta giorni’ è denso di simbolismi, che ricorre spesso negli avvenimenti del popolo ebraico errante, ma anche con Gesù, che digiunò nel deserto per 40 giorni.
San Paolo negli stessi ‘Atti’ (13, 31) dice che il Signore si fece vedere dai suoi per “molti giorni”, senza specificarne il numero, quindi è ipotesi attendibile, che si tratti di un numero simbolico.
L’Ascensione secondo Luca, avvenne sul Monte degli Ulivi, quando Gesù con gli Apostoli ai quali era apparso, si avviava verso Betania, dopo aver ripetuto le sue promesse e invocato su di loro la protezione e l’assistenza divina, ed elevandosi verso il cielo come descritto prima (Atti, 1-11).
Il monte Oliveto, da cui Gesù salì al Cielo, fu abbellito da sant’Elena, madre dell’imperatore Costantino con una bella basilica; verso la fine del secolo IV, la ricca matrona Poemenia edificò un’altra grande basilica, ricca di mosaici e marmi pregiati, sul tipo del Pantheon di Roma, nel luogo preciso dell’Ascensione segnato al centro da una piccola rotonda.
Poi nelle alterne vicende che videro nei secoli contrapposti Musulmani e Cristiani, Arabi e Crociati, alla fine le basiliche furono distrutte; nel 1920-27 per voto del mondo cattolico, sui resti degli scavi fu eretto un grandioso tempio al Sacro Cuore, mentre l’edicola rotonda della chiesa di Poemenia, divenne dal secolo XVI una piccola moschea ottagonale.

Il significato dell’Ascensione



San Giovanni nel quarto Vangelo, pone il trionfo di Cristo nella sua completezza nella Resurrezione, e del resto anche gli altri evangelisti dando scarso rilievo all’Ascensione, confermano che la vera ascensione, cioè la trasfigurazione e il passaggio di Gesù nel mondo della gloria, sia avvenuta il mattino di Pasqua, evento sfuggito ad ogni esperienza e fuori da ogni umano controllo.
Quindi correggendo una mentalità sufficientemente diffusa, i testi evangelici invitano a collocare l’ascensione e l’intronizzazione di Gesù alla destra del Padre, nello stesso giorno della sua morte, egli è tornato poi dal Cielo per manifestarsi ai suoi e completare la sua predicazione per un periodo di ‘quaranta’ giorni.
Quindi l’Ascensione raccontata da Luca, Marco e dagli Atti degli Apostoli, non si riferisce al primo ingresso del Salvatore nella gloria, quanto piuttosto l’ultima apparizione e partenza che chiude le sue manifestazioni visibili sulla terra.
Pertanto l’intento dei racconti dell’Ascensione non è quello di descrivere il reale ritorno al Padre, ma di far conoscere alcuni tratti dell’ultima manifestazione di Gesù, una manifestazione di congedo, necessaria perché Egli deve ritornare al Padre per completare tutta la Redenzione: “Se non vado non verrà a voi il Consolatore, se invece vado ve lo manderò” (Giov. 16, 5-7).
Il catechismo della Chiesa Cattolica dà all’Ascensione questa definizione: “Dopo quaranta giorni da quando si era mostrato agli Apostoli sotto i tratti di un’umanità ordinaria, che velavano la sua gloria di Risorto, Cristo sale al cielo e siede alla destra del Padre. Egli è il Signore, che regna ormai con la sua umanità nella gloria eterna di Figlio di Dio e intercede incessantemente in nostro favore presso il Padre. Ci manda il suo Spirito e ci dà la speranza di raggiungerlo un giorno, avendoci preparato un posto”.

La celebrazione della festa liturgica e civile



La prima testimonianza della festa dell’Ascensione, è data dallo storico delle origini della Chiesa, il vescovo di Cesarea, Eusebio (265-340); la festa cadendo nel giovedì che segue la quinta domenica dopo Pasqua, è festa mobile e in alcune Nazioni cattoliche è festa di precetto, riconosciuta nel calendario civile a tutti gli effetti.
In Italia previo accordo con lo Stato Italiano, che richiedeva una riforma delle festività, per eliminare alcuni ponti festivi, la CEI ha fissato la festa liturgica e civile, nella domenica successiva ai canonici 40 giorni dopo Pasqua.
Al giorno dell’Ascensione si collegano molte feste popolari italiane in cui rivivono antiche tradizioni, soprattutto legate al valore terapeutico, che verrebbe conferito da una benedizione divina alle acque (o in altre regioni alle uova). 
A Venezia aveva luogo una grande fiera, accompagnata dallo ‘Sposalizio del mare’, cerimonia nella quale il Doge a bordo del ‘Bucintoro’, gettava nelle acque della laguna un anello, per simboleggiare il dominio di Venezia sul mare; a Bari la benedizione delle acque marine, a Firenze si celebra la ‘Festa del grillo’.

L’Ascensione nell’arte

Il racconto scritturale dell’Ascensione di Gesù Cristo e la celebrazione liturgica di questo mistero, ispirarono numerose figurazioni, che possiamo trovare in miniature di codici famosi, fra tutti l’Evangeliario siriano di Rabula nella Biblioteca Laurenziana di Firenze, e in mosaici ed avori a partire dal sec. V.
Il tema dell’Ascensione, si adattò bene al ritmo verticaleggiante dei timpani, sovrastanti le porte delle chiese romaniche e gotiche; esempio insigne il timpano della porta settentrionale della cattedrale di Chartres (XII sec.).
Ma la rappresentazione, raggiunse notevole valore artistico con Giotto (1266-1337) che raffigurò l’Ascensione nella Cappella degli Scrovegni a Padova. Si ricorda inoltre un affresco di Buffalmacco (XIII sec.) nel Camposanto di Pisa; una terracotta di Luca Della Robbia (1400-1482) nel Museo Nazionale di Firenze; un affresco di Melozzo da Forlì († 1494) ora nel Palazzo del Quirinale a Roma; una tavola del Mantegna (1431-1506) a Firenze, Galleria degli Uffizi; una pala del Perugino († 1523) ora nel Museo di Lione; il noto affresco del Correggio († 1534) nella cupola della Chiesa di S. Giovanni a Parma; l’affresco del Tintoretto († 1594) nella Scuola di S. Rocco a Venezia; ecc.
In un’ampolla del tesoro del Duomo di Monza, Cristo ascende in cielo, secondo una tipica iconografia orientale, assiso in trono; in altre raffigurazioni Egli ascende al Cielo fra uno stuolo di Angeli, di fronte agli sguardi estatici degli Apostoli e della Vergine.





PENTECOSTE

Alle origini della festa

Presso gli Ebrei la festa della Pentecoste era inizialmente una gioiosa festa agricola chiamata “festa della mietitura” (Es 23,16) o “festa dei primi frutti” (Nm 28,26). Si celebrava il cinquantesimo giorno dopo la Pasqua e indicava l’inizio della mietitura del grano. 
In altri passi era detta anche “festa dello Shavuot, delle Settimane” (Es 34, 22; Dt 16,10; 2Cr 8,13), poiché cadeva sette settimane dopo la Pasqua. Le sette settimane corrispondono al periodo dell’Omer, un periodo di lutto, memoria delle disgrazie accadute al popolo di Israele che terminava con la festa di Lag Ba Omer. Nella lingua greca, utilizzata dagli Ebrei che non 
abitavano in Palestina, la festa dello Shavuot veniva tradotta con la parola greca Pentecoste che significa appunto 50ª giornata. Il termine Pentecoste, riferendosi alla “festa delle Settimane”, è citato in Tobia 2,1 e 2 Maccabei, 12,31-32.

Un senso nuovo alla festa della Pentecoste


Se lo scopo primitivo di questa festa era il ringraziamento a Dio per i frutti della terra, terminati i tempi biblici originari, gli Ebrei, a poco a poco le diedero un significato nuovo. Nel giorno di Pentecoste s’iniziò a commemorare il dono della Legge sul Sinai. Questo giorno, descritto come «il giorno del dono della Legge» (Maimonide More Neb., III, 41) richiedeva che gli Ebrei passassero la vigilia della festa leggendo la Legge. Per gli Israeliti della diaspora questa festa poteva durare anche due giorni a causa dell’incertezza con cui calcolavano in che giorno iniziasse il nuovo mese nella terra d’Israele.
In ogni caso, la Pentecoste era una delle tre festività, dette Shalosh regalim, feste del pellegrinaggio a Gerusalemme.
La festa comportava infatti un pellegrinaggio di tutti gli uomini a Gerusalemme, l’astensione totale da qualsiasi lavoro, un’adunanza sacra (‘asereth o ‘asartha) e particolari sacrifici. L’offerta sacrificale consisteva in due forme di pane lievitato prodotto con due decimi di efa (pari a circa 8 chili), oppure farina prodotta con il nuovo grano (Lv 23,17; Es 24,22). Il pane lievitato però non poteva essere posto sopra l’altare dei sacrifici (Lv 2,11) ed era solamente presentato (cioè «sollevato»); un pane veniva poi dato al Sommo Sacerdote, mentre l’altro veniva diviso tra gli altri sacerdoti ma dovevano mangiarlo dentro i sacri recinti.

La  Pentecoste cristiana

Come per la Pasqua, un gran numero di Ebrei provenienti da tutte le parti del mondo raggiungevano Gerusalemme per partecipare alla festa. Ed è in questo contesto che si colloca la prima Pentecoste cristiana in cui si celebra la discesa dello Spirito Santo che raduna nella Chiesa tutti i popoli. L’azione dello Spirito si contrappone alla babele dei popoli prodotta dalla superbia e dall’orgoglio umano. Nella Chiesa, per puro dono divino, l’uomo ritrova l’unità in se stesso e con gli altri. Il Risorto, che vive nell’uomo che lo accoglie, ricompone nell’armonia la dispersione causata dal peccato e pone nella storia il segno della creazione nuova che riprende il suo dominio sulla dissoluzione introdotta dall’antica disobbedienza.
Lo Spirito Santo con la sua discesa sugli Apostoli e Maria ha completato l’opera dell’Incarnazione di Dio: al momento della sua prima discesa, lo Spirito Santo aveva compiuto nella santa Vergine l’Incarnazione del Verbo, permettendo che il Verbo divenisse, nel suo corpo, il Dio-Uomo, per esserlo nell’eternità. Al momento della sua seconda discesa, durante la Pentecoste, lo Spirito Santo discende per dimorare nel suo corpo che è la Chiesa. 
Maria è presente poiché è l’unica che possa certificare la presenza e l’azione dello Spirito, in quanto lei è la sola che ne ha già fatto esperienza, avendo, per opera di Spirito Santo, generato al mondo il Verbo consostanziale al Padre.
Gli Apostoli sono rivestiti di Spirito Santo e annunciano al mondo quel Verbo eterno, crocifisso e risorto che Maria ha generato nella carne. Essi proclamano, lei convalida. Loro annunciano, a lei èstato annunciato. Essi diffondo la Parola di Vita, lei ha dato vita alla Parola.

Una perenne Pentecoste

Tra i due avvenimenti dell’Incarnazione e della Pentecoste si svolge tutta l’economia salvifica, una e indivisibile: lo Spirito Santo discende sull’intero corpo della Chiesa per dimorarvi completamente nella vita ecclesiale. Come nel corpo dell’uomo niente può esistervi senza l’anima, così nel corpo della Chiesa niente potrebbe avere esistenza senza lo Spirito Santo che è l’anima della Chiesa. In verità, la Chiesa si trova costantemente nel «giorno dello Spirito Santo»: lo Spirito Santo è infatti perennemente presente in essa, in quanto forza vivificante e immortale, ed è Lui a discendere continuamente sui cristiani: esso discende attraverso i Sacramenti, attraverso la preghiera come attraverso ogni sospiro di nostalgia per Cristo.

Nel giorno della Pentecoste, lo Spirito scende per restare. Egli è il Dono divino per eccellenza, e come ogni dono del Padre non può venir ritirato poiché Dio è fedele. Per questo, permanentemente Egli risiede nella Chiesa e viene continuamente manifestato dai segni che pongono nel mondo i successori di coloro sui quali Egli per primo discese. È lo Spirito che consente il trasmettersi dei segni certi della salvezza. È lo Spirito che obbliga i discepoli del Risorto a comunicare questi segni dell’amore invincibile di Dio. Per questa ragione i segni dello Spirito sono trasmissibili nei secoli di generazione in generazione. Ed è ancora lo Spirito che mediante questi segni guida i discepoli del Risorto verso la Verità tutta intera, verità che è la Vita eterna dell’uomo.

Con la Pentecoste s’apre il tempo della santificazione dell’uomo che mediante l’azione vivificante dello Spirito viene reso conforme a Cristo lo Sposo-Vittoria sulla morte.
Lo Spirito riveste di Sé l’uomo, ma non per Sé. Lo offre a Cristo affinché compiendo in lui il Suo trionfo immortale, lo renda, per partecipazione gratuita ed infinita, figlio in Lui che è il Figlio consostanziale al Padre.

Come dopo la santificazione, lo Spirito non aveva trattenuto l’uomo ma l’aveva donato al Verbo perché lo cristificasse, così il Cristo non trattiene per sé l’uomo che ha amato fino a dare la Sua vita per lui, ma lo offre al Padre di ogni gloria e di ogni onore, perché lo abbracci con il suo amore, lo rivesta del vestito nuovo della dignità filiale e gli metta al dito l’anello dell’eterno potere della vita che finalmente ha sconfitto l’avversario, quello vero, l’unico: la morte.
La santificazione dell’uomo avviene quando lo Spirito attua, nel tempo della Storia, la chiamata dell’uomo alla pienezza della sua realizzazione. È Lui che seduce l’uomo con la sua Grazia, instilla in lui la nostalgia della bellezza, per lui fa squillare la tromba della conversione affinché destandosi dal sonno del peccato si allontani dalla via della morte e, prenda coscienza dell’unicità del suo essere e della sua dignità creaturale.

La cristificazione si compie quando l’uomo attratto dalla bontà del Verbo si siede alla mensa nuziale dove Cristo si offre in cibo perché l’uomo da mortale diventi immortale. 
Con la definitiva offerta dell’uomo al Padre realizzata da Cristo, si compie la trinitarizzazione dell’uomo che investito dallo splendore della gloria può solo esclamare: Che cos’è l’uomo perché ti ricordi di lui?

giovedì 28 aprile 2016

Siate misericordiosi

 Quando noi diciamo che Dio è misericordioso, quasi sempre pensiamo ad un rapporto esclusivo, unilaterale, discendente: da Dio verso di noi. Noi pecchiamo e Lui ci perdona. Noi abbandoniamo la sua Casa e Lui ci attende. Noi bussiamo alla sua porta e Lui ci apre. Noi chiediamo e Lui ci dona. Ci dimentichiamo che noi siamo stati creati ad immagine e a somiglianza della sua carità, della sua misericordia, del suo amore.

La misericordia ricevuta deve trasformarsi all’istante in misericordia offerta, donata, elargita. La carità con la quale il Signore copre i nostri peccati deve divenire subito carità con la quale noi copriamo i peccati dei fratelli. L’amore con il quale Dio ci eleva all’altissima dignità di farci suoi figli di adozione e partecipi della sua divina natura, deve essere prontamente messo in campo per dare dignità umana, di vera fratellanza ad ogni altro uomo, di qualsiasi razza o nazione, di qualsiasi lingua o tribù.

La misericordia discendente deve esse essere misericordia ascendente. La carità ricevuta dovrà farsi perennemente carità donata. L’amore che ci trasforma dovrà divenire amore trasformante ogni uomo. Senza questa reciprocità non siamo nella misericordia, perché non viviamo ad immagine e a somiglianza del Padre nostro celeste. Accogliamo, ma non doniamo. Riceviamo, ma non elargiamo. Ci lasciamo avvolgere, ma non avvogliamo. Chiediamo perdono, ma non lo doniamo. Vogliamo essere accolti da Dio, ma non accogliamo i fratelli.

Non solo Dio ci ha creati a sua immagine e somiglianza, ci ha anche costituiti nel mondo per fare le sue veci. Per essere noi sempre creatori al suo posto, misericordiosi al suo posto, pieni di carità al suo posto, elargitori di ogni bene al suo posto. È come se ci avesse fatto se stesso per rivelare ad ogni creatura tutto se stesso. Se noi diciamo che Dio è misericordioso, dobbiamo storicamente manifestare, rivelare la sua misericordia. La si può rivelare in un solo modo: non dicendola, non chiedendola, non desiderandola, ma donandola noi, elargendola noi, offrendola noi, creandola noi in ogni cuore. Siamo noi i creatori della misericordia divina nel mondo, sulla terra.

Ed egli, alzàti gli occhi verso i suoi discepoli, diceva: Siate misericordiosi, come il Padre vostro è misericordioso. Non giudicate e non sarete giudicati; non condannate e non sarete condannati; perdonate e sarete perdonati. Date e vi sarà dato: una misura buona, pigiata, colma e traboccante vi sarà versata nel grembo, perché con la misura con la quale misurate, sarà misurato a voi in cambio».

La prima misericordia è nell’esercizio del non giudizio, della non condanna, del perdono sempre. Chi giudica, chi condanna, chi non perdona si esclude della misericordia di Dio. Da Lui sarà giudicato, condannato, non perdonato. Il Dio spietato che Lui ha mostrato è lo stesso Dio dinanzi al quale lui sempre verrà a trovarsi. È come se ognuno di noi si dovesse “creare” se stesso. Chi crea se stesso – sempre per grazia del Signore e per l’azione del suo Santo Spirito – persona misericordiosa, pietosa, pronta al perdono, ricca di grazia e di bontà, avrà dinanzi a sé sempre un Dio misericordioso, pietoso, ricco di grazia e di bontà. Avrà un Dio che lo perdonerà, lo amerà, non lo giudicherà. Lo rivestirà della sua eternità beata.

Chi invece avrà “creato” se stesso persona spietata, senza alcuna misericordia, avrà dinanzi a sé un Dio senza alcuna misericordia. Dio è fedele ad ogni sua Parola. Lo ha detto e lo manterrà per l’eternità. Ecco perché Gesù ci invita ad essere larghi, molto larghi nella misericordia. Se noi siamo larghi, Dio sarà larghissimo. Lui verserà nel nostro grembo una misura buona, pigiata, colma e traboccante. Lui moltiplicherà sempre quello che noi diamo ai nostri fratelli. Non solo lo moltiplica, lo centuplica, addirittura lo rende di una misura eterna, dal momento che per la nostra misericordia ci dona il suo regno eterno, la sua vita eterna, il suo Paradiso, ci dona se stesso, ci dona il Figlio e lo Spirito Santo. Tutto ci dona Dio, se noi siamo misericordiosi verso i nostri fratelli. Un atto di misericordia ci libera dalla morte e ci dona Dio, tutto Dio.

Vergine Maria, Madre della Redenzione, Angeli, Santi, fateci ricchi di misericordia.
 
 
 
 

martedì 19 aprile 2016

Discernere la chiamata di Dio

Padre, come si fa a  capire se un ragazzo ha davvero una vocazione?

“Ci sono alcune fasi importanti nella pastorale giovanile vocazionale. La prima fase, che secondo me è la più difficile, quella più difficile per tutti, è contattare i giovani, perché sono davvero un po’ lontani dalla Chiesa. E per questo primo approccio bisogna aiutare le congregazioni, i parroci. Mi rendo conto che molte congregazioni di religiosi non riescono a risolvere questo punto. Se ci aspettiamo che i giovani bussino alla porta, aspettiamo invano, sarebbe chiedere allo Spirito Santo di fare un grandissimo miracolo.”


Il problema è quindi dove e come incontrare i giovani?


 “Io cerco di incontrarli in ambienti propizi, come gruppi di preghiera, in particolare quelli mariani  che hanno una forte spiritualità. Ho visto che in questi ambienti si possono trovare quei giovani che, o per una conversione o per un cammino più lungo, sono più aperti a ricercare la volontà di Dio. E poi ci sono anche gli oratori, soprattutto al nord Italia. E comunque dipende molto dai sacerdoti che sono purtroppo sempre meno. E poi ci sono i gruppi legati ai vari movimenti, dai focolarini ai neocatecumenali. Insomma tutti gli ambiti che propongono una vita cristiana. E nelle parrocchie dove c’è una buona testimonianza “siamo a posto”. Per fortuna ci sono dei bravissimi sacerdoti. Io giro tutta Italia e faccio 90 mila chilometri l’anno. Dove c’è un ambiente favorevole, un ambiente di preghiera, la vocazione fiorisce. Certo il seme della vocazione lo mette il Signore, però il seme deve essere coltivato. Quindi l’esempio di sacerdoti e religiosi è fondamentale.”


Padre, ma come si può definire una vocazione?


“Partiamo dal fatto che la vocazione non è una scelta, ma è una risposta. La chiamata viene da Dio, io scelgo di rispondere. Da qui ho tracciato un metodo costruito poco a poco camminando con i ragazzi, incontrando tante realtà. A volte incontro un ragazzo che mi dice: “ Padre Giuseppe sento che il Signore mi sta chiamando, voglio fare un cammino spirituale per capire la volontà di Dio, voglio chiarire”. A volte io vedo già che c’è la chiamata, ma loro ancora no. Allora cerco di accompagnarli, li aiuto ad arrivarci.”


Allora ci spieghi quali sono i punti del “metodo”.


“Per prima cosa bisogna creare un clima di amicizia, in cui i ragazzi vedono l’interesse al loro bene, l’amicizia e la fiducia sono fondamentali. Ma non in modo superficiale o cameratesco, non serve andare a prendere una birra insieme. Piuttosto vado con loro a recitare un rosario in un santuario particolare.”


E poi?


“E poi la direzione spirituale costante. Questo è un punto difficile. Alcuni giovani mi dicono  che si incontrano ogni due, tre mesi con il loro direttore spirituale. Troppo poco. Magari meglio ogni due tre settimane. E poi dipende anche dall’età.”


Fate anche esperienza di comunità?


“Certo. Servono momenti conviviali significativi. Ad esempio un fine settimana in una comunità. Nel nostro noviziato ci sono 28 ragazzi dai 18 ai 30 anni e quindi è facile creare una bella atmosfera. Certo nelle comunità anziane è ben più difficile. Così posso anche far capire ai giovani la bellezza di questa vita comunitaria, e poi i giovani attirano giovani. Così si lavora in gruppo, e anche le cose quotidiane più semplici, dalla cucina alla lavanderia, alla preghiera comune, sono esempi. Io dico sempre: falli entrare in casa e falli sentire a casa loro.”


Un metodo che può essere “esportato“ facilmente?


“A volte in alcune comunità però manca un gruppo di giovani suore o sacerdoti che si dedichino al discernimento vocazionale. Non c’è una vera accoglienza, semmai si passa un periodo in una comunità, ma senza nessuno che si occupa dei ragazzi. Io cerco invece di far fare un’esperienza significativa di comunità, in ogni parte della vita, dalla liturgia allo sport. E alla fine della giornata i giovani che magari normalmente vivono delle giornate un po’ vuote, invece si ritrovano a fare tanto in una giornata sola. Vedono sorrisi, incontrano e parlano. Allora magari chi ancora non pensa alla vocazione ha degli elementi oggettivi su cui riflettere. Riflessioni che poi ritrovo negli incontri per la direzione spirituale. E su questo dialogo si costruisce. Poi ci sono dei  momenti più intensi, più lunghi come le vacanze estive o a Natale, Pasqua. In tre o quattro giorni si imposta un programma più completo.”


E come si arriva ad un corso di discernimento vocazionale vero e proprio, per capire la volontà di Dio nella propria vita, se si è chiamati ad una vita matrimoniale o di consacrazione?


“Normalmente una vocazione può maturare in un paio d’anni. Nel primo anno metto le basi e nel secondo anno arrivo ad una conclusione, non si rimane in discernimento per anni ed anni. In estate faccio un corso che dura un mese per vedere e per agire, si deve arrivare ad una decisione: entrare o no in seminario. Seguendo tre principi: conoscere, amare, seguire. Tutto è impostato su questo. Nessuno ama chi non conosce, nessuno segue chi non ama. Tutto riferito a Gesù. Naturalmente la proposta del corso vocazionale la faccio ai ragazzi che durante l’anno mi hanno fatto capire che stanno arrivando ad una decisione. Se no propongo delle alternative, magari una esperienza missionaria. Cerco di capire quando sono davvero pronti per evitare anche delusioni e illusioni.”


E l’apostolato, la pastorale sul campo?


“Naturalmente  si fanno delle esperienze di apostolato che aprono gli orizzonti. Per esempio facciamo la raccolta alimentare e diverse attività caritative.”


Ma cosa frena maggiormente i giovani a rispondere alla vocazione?


“Uno scoglio che è davvero impensato è l’accettazione delle famiglie. Non tutti riescono a parlarne ai genitori. Ricevo delle e-mail dai ragazzi che spesso mi chiedono: come faccio a dirlo a casa perché i miei non credono? E il dramma che ha un giovane di vivere in una famiglia in cui la vocazione non viene accettata è forte.

C’è poi il problema della fragilità dei giovani che hanno una insicurezza di base totale. Per questo chiedono sempre dei segni, delle certezze. Del resto in un mondo in cui regna l’insicurezza dal lavoro alla famiglia che non è più stabile, i ragazzi hanno molta paura di sbagliare  e cercano sempre i segni del cammino.

Se la vocazione è una risposta, e non una scelta, il primo interessato a farci capire la domanda e ad aiutarci a dare la risposta, è proprio il Signore. Ho già scritto un libro che si intitola Mandami una mail, e sto pensando di farne un altro A modo suo, in cui vorrei analizzare la chiamata vocazionale da un punto di vista delle virtù teologali. Soprattutto la Speranza, per dire ai ragazzi, che è nel Signore la mia Speranza.

E c’è poi da superare l’idea che non serve un metodo per il discernimento, che la chiarezza arriverà prima o poi. Io invece dico che bisogna fissare delle scadenze. Un po’ come si fa per un piano di studio. Bisogna essere concreti. A volte sacerdoti e suore non sanno essere concreti.”

Ma quale è il sistema migliore per iniziare un vero cammino?

“Sempre partire da una buona guida spirituale che sappia cosa fare. Io ho avuto la Grazia di poter organizzare un percorso con l’aiuto di molti miei confratelli, molto concreto.

In un accompagnamento spirituale la prima preoccupazione è imparare a pregare per capire cosa vuole dire il Signore, quindi Adorazione Eucaristica e Rosario, molto semplicemente, e vita sacramentale.

Per me poi è molto importante la conoscenza personale. E accompagno anche i ragazzi che hanno seguito la vocazione del matrimonio. Ho sposato molti di loro e li accompagno in un cammino cristiano. Ed ho un incontro mensile con le coppie che seguo. Del resto è da una famiglia cristiana che nascono belle vocazioni.”

Sul sito che padre Giuseppe gestisce con sensibilità e semplicità, ci sono anche le “pillole di discernimento”, i video, le testimonianze, i racconti, le proposte. Manca solo una frase che però padre Gamelli ama ricordare: “Ho fatto un contratto con Maria. Ho detto alla Madonna: io sono un asino che non sa far niente,  ma se arriviamo a 100 sacerdoti,  poi mi farò un po’ di Purgatorio, però poi mi fai uno sconto, mi mandi in Cielo perché avrò finito di lavorare.”
Il “metodo” è fatto proprio di slancio e fiducia.   


                      

GESÙ È IL BUON PASTORE CHE CI CHIAMA PER NOME

Allora Gesù disse loro di nuovo: «In verità, in verità io vi dico: io sono la porta delle pecore. Tutti coloro che sono venuti prima di me, sono ladri e briganti; ma le pecore non li hanno ascoltati. Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvato; entrerà e uscirà e troverà pascolo. Il ladro non viene se non per rubare, uccidere e distruggere; io sono venuto perché abbiano la vita e l'abbiano in abbondanza». Il buon pastore chiama le sue pecore, ciascuna per nome. Non l'anonimato del gregge, ma nella sua bocca il mio nome proprio, il nome dell'affetto, dell'unicità, dell'intimità, pronunciato come nessun altro sa fare. Sa che il mio nome è «creatura che ha bisogno». Ad esso lui sa e vuole rispondere. E le conduce fuori. Il nostro non è un Dio dei recinti chiusi ma degli spazi aperti, pastore di libertà e di fiducia. E cammina davanti ad esse. Non un pastore di retroguardie, ma una guida che apre cammini e inventa strade, è davanti e non alle spalle. Non un pastore che pungola, incalza, rimprovera per farsi seguire ma uno che precede, e seduce con il suo andare, affascina con il suo esempio: pastore di futuro. Io sono la porta, Cristo è passaggio, apertura, porta spalancata che si apre sulla terra dell'amore leale, più forte della morte (chi entra attraverso di me si troverà in salvo); più forte di tutte le prigioni (potrà entrare e uscire), dove si placa tutta la fame e la sete della storia (troverà pascolo). E poi la conclusione: Sono venuto perché abbiano la vita e l'abbiano in abbondanza. Non solo la vita necessaria, non solo la vita indispensabile, non solo quel respiro, quel minimo senza il quale la vita non è vita, ma la vita esuberante, magnifica, eccessiva, vita che di rompe gli argini e sconfina, uno scialo di vita. Così è nella Bibbia: manna non per un giorno ma per quarant'anni nel deserto, pane per cinquemila persone, carezza per i bambini, pelle di primavera per dieci lebbrosi, pietra rotolata via per Lazzaro, cento fratelli per chi ha lasciato la casa, perdono per settanta volte sette, vaso di nardo per 300 denari sui piedi di Gesù In una piccola parola è sintetizzato ciò che oppone Gesù, il pastore vero, a tutti gli altri, ciò che rende incompatibili il pastore e il ladro. La parola immensa e breve è «vita». Cuore del Vangelo. Parola indimenticabile. Vocazione di Dio e vocazione dell'uomo. «Non ci interessa un divino che non faccia anche fiorire l'umano. Un Dio cui non corrisponda il rigoglio dell'umano non merita che ad esso ci dedichiamo». Pienezza dell'umano è il divino in noi, diventare figli di Dio: i quali non da sangue, non da carne, ma da Dio sono nati (cfr. Gv 1, 13). Diventare consapevoli di ciò che già siamo, figli, e non c'è parola che abbia più vita dentro; realizzarlo in pienezza. E questo significa diventare anch'io pastore di vita per il piccolo, per il pur minimo gregge (la mia famiglia, la mia comunità, gli amici, cento persone con nome e volto) che Lui ha affidato alle mie cure. Vocazione di Cristo e dell'uomo è di essere nella vita datori di vita. (Letture: Atti 2,14.36-41; Salmo 22; 1 Pietro 2,20b-25; Giovanni 10,1-10)